È legittimo il licenziamento del dipendente fondato sugli atti del procedimento penale dai quali era emerso, senza necessità di un’ulteriore e autonoma istruttoria, che il lavoratore si era reso responsabile con l’aiuto del figlio, anch’esso dipendente del medesimo datore di lavoro, di avere falsamente attestato la presenza in servizio per un consistente arco temporale nel corso dell’anno.
A questo proposito, la Cassazione ha precisato, con la sentenza 25485 del 26 ottobre 2017, che il datore di lavoro può avvalersi in sede disciplinare dei medesimi atti posti a fondamento del procedimento penale, purché essi siano stati oggetto di autonoma valutazione, allo scopo di predisporre la contestazione degli addebiti.
Non ha invece pregio la contestazione del lavoratore per cui il principio dell’autonomia tra processo penale e procedimento disciplinare imporrebbe al datore di lavoro di acquisire atti ulteriori e diversi per effetto di un’indagine parallela.
Il caso su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione è relativo al licenziamento del collaboratore amministrativo di un’azienda sanitaria, condannato in sede penale per truffa aggravata sul presupposto di avere falsamente attestato la presenza in servizio del figlio, anch’egli dipendente della medesima struttura sanitaria, in un periodo compreso tra marzo e ottobre del 2011. L’azienda sanitaria aveva avuto conoscenza dei fatti solo nel maggio 2014, quando la Procura della Repubblica aveva trasmesso la sentenza di condanna in primo grado. L’ufficio per i procedimenti disciplinari della Asl aveva, a quel punto, esaminato gli elementi di prova sulla cui scorta era stata formulata la sentenza di condanna, riscontrando che, dal confronto dei fogli presenza con i tabulati telefonici dell’utenza in uso al dipendente, era risultato che il figlio figurava formalmente al lavoro, trovandosi, invece, in località estranee alla sede di servizio.
Ne era scaturito un procedimento disciplinare in cui l’azienda aveva contestato al lavoratore le condotte addebitate in sede penale, allegando il testo integrale della sentenza di condanna. Nel successivo atto di licenziamento il datore di lavoro aveva valorizzato la circostanza che il dipendente si era rifiutato di sottoporsi all’interrogatorio per le giustificazioni e non aveva altrimenti fornito la propria versione.
La Cassazione conferma, da un lato, che il mancato esercizio da parte del lavoratore del diritto alle giustificazioni non può essere equiparato di per sé ad una ammissione dei fatti oggetto di contestazione di addebiti, ma aggiunge, dall’altro lato, che in presenza di fatti circostanziati sul piano disciplinare le difese del dipendente non possono fermarsi ad una contestazione generica. In mancanza di specifici elementi di segno contrario da parte del lavoratore, quindi, gli esiti delle prove raccolte in sede penale possono essere legittimamente utilizzati dal datore di lavoro per giustificare l’irrogazione del licenziamento per giusta causa.
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