Mobbing: prova diabolica a carico del lavoratore.

22 Gennaio

Immagine per la news Mobbing: prova diabolica a carico del lavoratore.

Se c’è un termine che crea puntualmente una certa apprensione nei datori di lavoro, quel termine è “mobbing”.
Ma al di là della nozione generica di “comportamento vessatorio verso un sottoposto” nozione che è più o meno nota a tutti, quando si approfondisca meglio il tema su un piano tecnico di diritto del lavoro, la situazione cambia molto.
Un conto, infatti, è il senso di ingiustizia subito dal lavoratore per asserite condotte mobbizzanti, un conto è riuscire ad ottenere una sentenza favorevole con condanna al risarcimento del danno del datore di lavoro.
Insomma, la fattispecie del mobbing, in un’aula di tribunale diventa una casistica molto più difficile a concretizzarsi. Vediamo perché.
Ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante, che deve essere provato dal lavoratore che ritiene di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica.
Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

  • la pluralità di condotte protratte nel tempo, poste in essere dal datore di lavoro o da un suo preposto o da altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi;
  • la volontà vessatoria finalizzata alla persecuzione o emarginazione del dipendente che unifica tali atti;
  • la conseguente lesione della salute o della personalità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra la condotta ed il pregiudizio psico-fisico;
  • la prova dell’elemento soggettivo, ossia dell’intento persecutorio.
    Il lavoratore che ritiene di essere stato mobbizzato ha, quindi, l’onere di provare non solo le condotte vessatorie, ma anche la volontà persecutoria, nonché il nesso causale con il danno subito.
    Il lavoratore, quindi, si scontra con una prova pressoché diabolica di dover dimostrare l’elemento psicologico, ossia l’intento vessatorio che unifica tutte le condotte datoriali.
    L’orientamento ormai consolidato ammette che tale prova possa essere fornita con l’utilizzo di presunzioni. E i certificati medici sono senza dubbio importanti per provare le patologie derivanti dal mobbing. Però i certificati non possono dimostrare che le condotte poste in essere dal datore o dai colleghi siano reali e che ci sia il nesso di causa tra le condotte e l’insorgenza della patologia.
    Pertanto, un ruolo fondamentale sarà assunto dalle testimonianze dei colleghi in quanto, avendo assistito ai fatti (perché presenti sul luogo di lavoro), possono essere in grado di dichiarare la sussistenza del mobbing.
    Certo è che la dimostrazione del mobbing è una strada molto in salita e poche vertenze si concludono con esito favorevole ai lavoratori.
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